Avevo cominciato a scrivere.
Ma, nello stesso momento, è cominciato un programma sul Nove che parla di Stefano Cucchi.
Non sono più riuscita a staccare gli occhi dalla televisione.
Sento una madre che ha salutato suo figlio e l'ha rivisto sei giorni dopo all'obitorio. Sento una sorella che dice "Avrei voluto ricordarmelo da vivo, che gli chiede scusa per non essere riuscita a "salvarlo" e che promette che avrebbe avuto giustizia.
Sento la storia di un ragazzo che può aver fatto tutti gli errori del mondo ma che è stato picchiato a sangue senza potersi difendere, per poi morirne.
Sento l'avvocato della procura che dice che, sì, Stefano aveva lesioni traumatiche importanti ma che se è morto è perché aveva delle patologie tutte sue.
Sento di medici assolti per prescrizione per non aver curato, nonostante i giuramenti cui devono far fede (se non dall'etica loro per lo meno dalla legge), un ragazzo che stava morendo a causa delle botte infertegli.
Oggi, tutto è chiaro grazie alla caparbietà di una giovane donna, della sua famiglia e di un avvocato che, già prima, aveva seguito il caso Aldrovandi.
Penso a tutte quelle morti che, invece, una verità non l'avranno mai perché la giustizia non potrà essere messa altrettanto alle strette da arrivare a giudicare se stessa e a ritrovarsi, pur con fatica.
Penso a quelle famiglie e al dolore assoluto di aver perso un proprio caro non una ma dieci, cento, mille volte. Ogni volta che una nuova giustificazione è stata presentata al posto della verità.
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