giovedì 19 dicembre 2013

San Quandoserve e il drago

(ovvero la prima favola della narratrice malfidente)

C'era una volta, in un ameno paesino di una lontana valle olimpica, una cappella intitolata a San Quandoserve, protettore di tutti i lebbrosi e gli sfigati. Era una cappella un po' diroccata poiché nessuno se ne occupava, se non tre o quattro devote paesane che, qualche volta l'anno, andavano a pulirla per non lasciarla sovrastare dalla polvere e dalle ragnatele. Era un tempo in cui si stringeva la cinghia e i soldi per rimettere a posto l'edificio di culto non c'erano, perché su una cappella che racconta una storia, se pur povera, dimenticata e lacera, non si poteva intervenire come se si trattasse di rifare una mulattiera. C'era una volta, infatti, un'istituzione severa e arcigna chiamata EntePerIlControlloDelleOpereDarte che, talvolta, cercava di tutelare persino piloni votivi dall'asfaltatura umana; figuriamoci cappelle affrescate complete di arredi e di paramenti.

Così per Quandoserve passavano gli anni e i decenni. Per non dire che s'era dimenticato il santo, tanto più che la lebbra era stata sconfitta definitivamente da tempo, si celebravano una o due messe l'anno. Ma con il calo di vocazioni, frequentare anche le piccole cappelle lacere cominciava a diventare difficile.

Un giorno, così, il principe Bellachioma, dopo una festa ricca e fruttuosa dedicata al santo - organizzata per profonda devozione e non certo per cercar introiti che a un principe non s'addicono - decise di intervenire per arginare il decadimento della cappella e s'impose di riuscirci prima della festa dell'anno successivo che sperava ancor più fastosa e fruttuosa.

Il principe Bellachioma aveva ricordi antichi di un regno dove un principe fa un po' come gli pare e non deve sottostare a rigidi regolamenti o chiedere "Per piacere Signor EntePerIlControlloDelleOpereDarte lo farebbe un giretto qui per vedere se c'è qualcosa che vale la pena di trattare con cura prima di gettare uno strato di cemento in ogni dove?".

Il principe era potente ma a governare sull'ameno paesello, per sua sfortuna, c'era una radicata oligarchia scelta dai cittadini attraverso pubbliche votazioni. Il nobile uomo, però, sapeva fare i suoi conti potendo anche contare su un concreto numero di vassalli e valvassori fedeli e riconoscenti.
Si narra che il principe fece un patto segreto con gli oligarchi, che la storia non può narrare perché altrimenti che patto segreto sarebbe. Il patto avrebbe dato lustro al principe, rendendolo agli occhi della sua corte ancor più potente e rendendo la sua corte ancor più devota. E si sa, la devozione rende tutti più disponibili ad elargire bene e beni. Ma il patto garantiva lustro anche agli oligarchi che potevano esibire ai propri villici la cappella in parte rigenerata, casualmente proprio prima che si rinnovasse quel rito - a dirla tutta un po' desueto - della votazione pubblica.

L'arcigno EntePerIlControlloDelleOpereDarte non era stato neppure interpellato - d'altra parte aveva certo edifici più belli di cui occuparsi - e nemmeno un cartello piccino aveva dovuto affiggere il nobile Bellachioma per procedere nella sua opera di devozione. Ai villici votanti era riservato altro trattamento e neanche una parete di cartongesso di una stanza (per dare un po' di privacy al figlio cresciutello) potevano erigere senza chiedere permessi e stilare documenti e affiggere cartelli e pagare professionisti e seguire procedure e pagare tasse per raddoppio di vani.

I vassalli di Bellachioma lasciavano cumuli di materiale, automezzi, attrezzature là dove era più comodo loro e ai villici che si lagnavano di essere stati murati vivi dentro i propri cortili o a coloro che ardivano chiedere motivo di tale iter sbrigativo arrivavano sonore pernacchie.

Così andava avanti serena la vita nell'ameno paesello. Voi chiederete: e il drago? Pazientate miscredenti! Dovete aspettare che Bellachioma e gli oligarchi leggano la favola.


PS: Ogni riferimento a fatti e persone reali è, naturalmente, puramente casuale.

PPS: Dedico questa mia fiaba a Peppino Impastato e a Stefano Benni, due delle mie grandi muse ispiratrici.

giovedì 12 dicembre 2013

Forche, forconi e forchette

Dovremmo saperlo. O meglio, dovrebbe saperlo bene chi ci governa e chi fa politica da sempre anche solo per passione. La rabbia cieca della gente disperata è facile da cavalcare, da sfruttare, da dirigere. La rabbia cieca, comprensibile se non condivisibile, non porta da nessuna parte. Perché la rabbia non è un progetto. E la rabbia cieca non è neanche rivoluzione. Ce lo insegna la Storia, che di rivoluzioni ne ha viste tante. Cancellare uno stato di cose ha sempre lo scopo di istituirne un altro e bisogna essere certi che quello che sarà sia meglio di quello che era. Bisogna avere un progetto e lottare per esso. Io sono certa che il mio progetto per un futuro migliore abbia tra i suoi pilastri fondamentali l'antifascismo. L'antifascismo così come la solidarietà, l'accoglienza, le pari opportunità.

In questi giorni vediamo le piazze riempirsi di gente che protesta in tutta Italia. Il movimento 9 Dicembre, così detto, nato sull'esperienza della protesta siciliana dei forconi dell'anno scorso. Tutti noi ci siamo interrogati sul significato e sulla portata di questa protesta, portata in piazza inizialmente da leader di estrema destra e da gruppi di autotrasportatori e agricoltori legati a Forza Italia e alla destra.

La crisi comincia a mordere forte. Aumenta la disoccupazione, soprattutto quella giovanile (che è a livelli mai toccati prima nella storia repubblicana). I soldi non bastano più per pagare l'affitto, le bollette, il cibo, la scuola dei figli e le medicine anche detratte quelle poche piccole comodità a cui ormai non sapremmo e non vorremmo più rinunciare. In città si sente ancora più forte che fuori, nella campagna, dove quei piccoli meccanismi di solidarietà, di reciproca conoscenza e l'attitudine alla cura della terra attutiscono ancora parzialmente il colpo. E lo Stato che fa? Nulla. O quasi nulla, preferendo chinare la testa ai grandi interessi bancari, alla finanza mondiale, a quei pochi (rispetto alla massa) potentissimi ricchi.

La rabbia fa crescere altra rabbia. Non avere un riferimento istituzionale a cui guardare - a un partito o movimento che sia - è frustrante per i cittadini, che si sentono abbandonati e senza rappresentatività. Allora perché non scendere in piazza tutti a sovvertire il sistema? Per quanto mi riguarda, io devo essere sicura di condividere non solo la finalità della lotta - sovvertire il sistema appunto - ma anche quello che verrà dopo. Perché, a mio parere, è totalmente assurdo lottare contro il caos per puntare esclusivamente a un caos diverso.

Il dubbio dell'antifascista potrebbe essere questo: se lasciamo gestire la rabbia di piazza solo alle forze destrorse, alla fine della lotta l'unico riferimento politico saranno loro; dunque, andiamo anche noi in piazza e cerchiamo di dare una direzione politica diversa alla lotta. Io rabbrividisco all'idea di me stessa che si avvicina a una piazza in cui si fa il saluto romano, si sentono cori razzisti, si minacciano esercenti e passanti e si scrivono volantini che inneggiano alla mafia. Perché la mafia è una montagna di merda, per dirla alla Peppino Impastato, ed è proprio il metodo mafioso di gestione della vita umana, esportato alla politica e persino all'etica comune nel corso dei decenni, che ci ha condotti qui dove siamo ora.

La casta va sulla forca poiché ci ha condotti alla rovina, dice chi protesta. Ma quella casta siamo anche noi, con un nostro dilagante malcostume che non sarà cancellato da un moto di piazza. Siamo noi quando evadiamo le tasse, quando non paghiamo il biglietto del treno perché tanto non c'è il controllore, quando preferiamo il nipote al ragazzo meritevole se dobbiamo dare un posto di lavoro, quando facciamo lavorare in nero le persone per pochi euro l'ora minacciandole di dare il posto a chi ne chiede ancora meno, quando andiamo al pronto soccorso per un raffreddore, quando neghiamo i diritti con la scusa che qualcuno, prima, li ha negati a noi. Noi abbiamo bisogno di un capro espiatorio per negare quanto profondamente siamo collusi con questo modo di agire. Un modo di agire che adesso non sta più in piedi e che la crisi sta facendo crollare. Chi ci ha governato ha certamente sbagliato in questi decenni ma tutto possiamo dire tranne che quelle persone non siano come noi. Solo con più mezzi.

Cambiare etica e modo di pensare è un processo lungo. Forse ci riusciranno le nuove generazioni con il nostro aiuto. Lottiamo, dunque, per maggiori diritti e una vita giusta per tutti i cittadini, di qualunque estrazione sociale, religione, credo, sesso, orientamento. Lottiamo sempre, però, sapendo sempre esattamente dove vogliamo arrivare. Come fece chi 70 anni fa lottò contro il fascismo, che (guarda caso) fece proseliti grazie alla povertà dilagante e al populismo, sapendo indirizzare la rabbia esattamente nella direzione in cui voleva. Una direzione che io non mi sento in alcun modo di condividere, neppure per un piccolo pezzetto di strada.

lunedì 11 novembre 2013

Ddl sul femminicidio e Donne No Tav

Sabato pomeriggio le Donne No Tav sono tornate a riunirsi in assemblea a Bussoleno e, in vista del 25 novembre (giornata mondiale contro la violenza sulle donne) e delle iniziative che si terranno in quell'occasione anche in valle di Susa, hanno approfondito il tema del Ddl sul femminicidio emanato recentemente dal governo. Un ddl assolutamente inadeguato e strumentale, che inserisce tra le norme anche nuove determinazioni estremamente punitive e repressive in merito alla protezione civile e ai siti di interesse strategico - come il cantiere della Maddalena di Chiomonte.

La riunione è nata dal desiderio espresso da un gruppo di donne che frequentano la valle di Susa (molte delle quali fanno parte di Refe e Medea), per continuare il discorso iniziato l'anno scorso sempre in occasione del 25 novembre sul tema "Violenza contro le donne e violenza contro la terra".
Elina Colongo, del Soccorso violenza sessuale del Sant'Anna ha fatto una breve introduzione sul decreto commentando che «è solo uno specchietto per le allodole per inasprire o introdurre misure punitive in tema di protezione civile». «E' una legge che usa strumentalmente il corpo delle donne e che non da' le risposte che dovrebbe» ha aggiunto.

Tra i punti considerati inadeguati, per molte ragione ma soprattutto perché si tratta di una risposta esclusivamente repressiva in situazioni molto delicate (senza il dovuto sostegno alle donne vittime di violenza) ci sono: l'aumento delle pene se il maltrattamento si svolge all'interno della coppia e in presenza di minori: l'aumento delle aggravanti in caso di stalking se commesso dal coniuge/convivente con strumenti informatici nonché l'aumento delle pene in caso di violenza su donna gravida da parte del coniuge/convivente/ex coniuge (il 25% delle violenze in famiglia cominciano in gravidanza). Uno dei problemi del ddl è che c'è un riconoscimento della violenza solo quando la donna è madre o moglie/convivente o comunque all'interno della famiglia classica uomo-donna-figli.

Introdotta anche l'irrevocabilità della querela in caso di minacce gravi. «L'irrevocabilità è un'arma a doppio taglio - ha spiegato la Colongo - sembra impedire che la donna sia sottoposta a ricatti o pressioni per ritirarla ma le donne che subiscono violenza e maltrattamenti protratti nel tempo sono spesso indecise - non solo per motivi materiali di indipendenza economica - quindi sono più spaventate a sporgere querela. Questa irrevocabilità porterà a un aumento del silenzio?

Tra le norme del ddl considerate positive ci sono invece: la concessione del permesso di soggiorno per motivi di protezione: la possibilità di gratuito patrocinio e l'assicurazione di dare costante informazione alle parti offese dell'iter processuale con notifica e non solo con comunicazione. (Es. la revoca di domiciliari o carcere non veniva comunicato alla parte offesa)

La seconda parte dell'incontro è stato dedicato alla valle di Susa e alla violenza sulle donne in particolare sul nostro territorio. «Ricontriamo una difficoltà delle donne in generale a prendere in mano alcune questioni e portarle avanti - ha detto Ermelinda - A volte sentiamo che ci sono anche resistenze da parte delle donne ad avvicinarsi ai temi di genere. La violenza sulle donne, in particolare, dovrebbe essere più un tema maschile che femminile visto che sono gli uomini che agiscono la violenza. Questo non è un argomento accessorio. Immaginiamo e cerchiamo di reagire ma in maniera non patriarcale o maschile come molte donne fanno». «E' sbagliato dover assomigliare a un uomo per potersi affermare - ha aggiunto Luana - Spesso nei luoghi di lavoro non c'è alcuna solidarietà tra donne. Bisogna trovare una modalità diversa. La parità significa che io possa accedere alle situazioni con le mie specificità di donna». E ancora, Chiara: «Occorre continuare su questo fronte, con incontri e stringendo rapporti perché, alle donne, gli spazi spesso mancano. E' necessario lottare insieme per rivendicarsi spazi di autonomia».

Il prossimo appuntamento con le Donne No Tav è previsto per lunedì 25 novembre, con l'apericena di autofinanziamento presso la Credenza di Bussoleno seguito da una performance teatrale. Nel fine settimana che seguirà ci saranno ancora iniziative e approfondimenti, sempre a Bussoleno.

sabato 9 novembre 2013

Quiete e meraviglia

Scorcio della valle di Susa

Bisognerebbe scattare un milione di fotografie per raccontare il bosco in autunno. 

Ogni foglia ha un colore diverso, in continuo mutamento appena si sposta la luce, appena quelle due piccole gocce di rugiada vengono asciugate dal sole. Ci sono infinite tonalità di verde, giallo, marrone e rosso. Ci sono i grigi argentati dei riflessi, i grigi più spenti delle pietre, gli scuri della terra.

Ma non basterebbe comunque. Perché nel bosco d'autunno ci sono altrettanti profumi: quello del muschio che cresce sui sassi, quello dei funghi nascosti sotto le foglie e quello della terra umida. E come si possono raccontare i profumi con una fotografia? Come si possono raccontare i suoni? I rametti secchi che si spezzano sotto le zampe di qualche animale selvatico, il verso di un uccello infastidito dalla nostra presenza, il vento che muove le foglie.

Il bosco in autunno è un'esperienza capace di coinvolgere tutti i sensi. Quel vento che soffia lo percepisci anche sulla pelle e in una giornata con il cielo cristallino percepisci anche il chiaroscuro tra le foglie, il tiepido calore dei raggi novembrini, lo scarpone che si adatta alle asperità del suolo, attento a dove cammina.

L'autunno prepara il bosco all'inverno come una mamma che rimbocca le coperte ai suoi bimbi. Tutto, pian piano si addormenta e lascia il posto al riposo. Percorrendo i sentieri è grande la sensazione di quiete e meraviglia. Per quell'ultimo fiore che ha trovato la forza di sbocciare e per quegli alberi generosi, che sanno vivere e rinascere e accogliere ogni creatura.

Aspetto che cada la neve per ritornare sugli stessi passi. Per sentire come respira il bosco senza foglie. Per imparare ad amare il tempo e ad accettarlo, lasciando indietro tutto quello che non ha importanza, che non sarà mai un meraviglioso ricordo nella mia memoria.

sabato 26 ottobre 2013

Il rispetto delle regole

E' tanto che non scrivo. Ci sono periodi in cui riesco a vivere la vita e periodi in cui la vita vive me e non trovo il tempo che per l'indispensabile. E ce ne sarebbero stati di avvenimenti su cui avrei voluto dire la mia: la terribile tragedia dei migranti a Lampedusa e lo stupro di branco ai danni di una quindicenne durante una festa, tanto per dirne due. E poi mi sarebbe piaciuto commentare Servizio Pubblico di mercoledì sera, che è la prima vera uscita del Movimento No Tav in prima serata.

Invece voglio parlare di regole. Come genitore impieghi gran parte del tempo a cercare di spiegare ai bambini non tanto le regole quanto il perché esse vadano rispettate. Ai bambini (come agli adulti) piacerebbe vivere in un mondo dove le regole non ci sono e ognuno fa un po' quel che gli pare. Siamo noi, in prima persona, a rendere difficile loro apprendere il concetto con il nostro comportamento quotidiano. Mille piccole "infrazioni" alle regole che per un adulto rappresentano talvolta un modo per sopravvivere in un eccesso di regolamentazione mentre per un bambino sono di fatto un "via libera".

Non si tratta principalmente di infrazioni a norme e leggi (reati più o meno gravi) ma anche quelle legate al vivere civile. Non c'è nessuna legge che mi vieta di grugnire in faccia alle persone anziché salutarle, di non ringraziare chi ha fatto qualcosa per me o di schivare i baci di una vecchia parente, ma il vivere civile vuole - giustamente - che ci si comporti in maniera differente. Sembrano sciocchezze per un adulto ma sono il mondo dei bambini.
Per noi, infrangere le regole può significare "tagliare" una rotonda inutile installata apparentemente senza motivo in un incrocio, non richiedere una fattura per risparmiare qualche euro, scaricare un film o un disco da internet.
E' una proporzione. Ognuno di noi ha una linea che ritiene invalicabile ma al di sotto della quale ci sta un po' tutto. Il problema del rispetto delle regole è che ognuno ritiene giustificabile quello che sta sotto la propria linea ma ingiustificabile quello che sta sotto la linea degli altri. Per questo, è stata definita una linea comune (normalmente detta "legge") al di sotto della quale tutti possono fare un po' quello che vogliono. Solo che è una catena cortissima quella che resta.

Spiegare ai bambini perché bisogna rispettare le regole è difficile soprattutto perché noi siamo spesso cattivi maestri. Ai bambini le spiegazioni non importano molto. Non le capiscono, non le memorizzano. Per loro vale la forza dell'esempio. Ma essere integerrimi nel mondo di oggi significa pagare un prezzo altissimo, non solo in termini economici ma anche personale. Spesso mi domando se sia davvero possibile e mi chiedo come potranno essere i miei figli tra quindici o vent'anni quando la vecchia parente sarà morta e a loro, di schivare quel bacio, non importerà più nulla.

venerdì 13 settembre 2013

Il geco e il Tav

Tivù, giornali, radio, web. In questi giorni, tutti parlano nuovamente di Tav. Si dà in qualche modo per scontato (anche se l'esperienza insegna che dare per scontato non porta lontano) che gli attentati alle ditte che lavorano sui cantieri dell'alta velocità a Chiomonte siano opera di sedicenti attivisti appartenenti alla lotta valsusina contro il treno veloce.

Stamattina a "Il geco" su Radio Capital, la domanda che veniva posta agli ascoltatori era: "Treno alta velocità Torino-Lione continuano le tensioni. Da luglio sono 13 gli attentati contro le aziende e i cantieri. 2 milioni di euro di danni. I 130 operai delle 26 ditte che lavorano all'opera si sentono in pericolo. E' arrivata la solidarietà di Napolitano. Ci chiediamo e vi chiediamo: è giusto usare la violenza contro le ditte che lavorano al TAV? Quando finiscono nel vuoto le proteste pacifiche si può andare oltre? In che modo si possono fermare le tensioni?" (Per chi ha Facebook https://www.facebook.com/IlGecoRadioCapital?fref=ts).

Ciò che mi ha colpito particolarmente non sono state le posizioni degli ascoltatori - comunque in gran parte possibiliste sul sabotaggio anche se lontane centinaia di chilometri dalla valle - quanto l'assunto da cui partiva la trasmissione ovvero, in sostanza, il Tav non serve più (se mai serviva 25 anni fa), costa un sacco di soldi pubblici che non ci possiamo permettere però l'opera è decisa e la democrazia vuole che si segua la volontà della maggioranza (che per qualche motivo si dà per scontato sia Si Tav).

Tutti sono contrari alla violenza (mi sembra palese) contro le cose e soprattutto contro le persone. Puoi chiedere a mille persone. Tutti ti diranno che la violenza è male, che va scongiurata, che va allontanata con il dialogo e con il supporto. Mi aspettavo un plebiscito di prese di distanza e, invece, ho ascoltato numerosi "tuttavia". La violenza (contro le cose, beninteso) è male tuttavia il primo violento è lo Stato. La violenza è male tuttavia se non c'è altro modo di farsi sentire... Insomma ho sentito testimonianze cariche di rabbia contro uno Stato che non sa dare risposte alle necessità effettive ma che s'impunta laddove inutile se non dannoso.

Stamattina sarebbe stato bello intervenire - io non potevo e me ne dispiaccio - per ricordare all'Italia tutta alcune piccole cose che io credo fondamentali:

a) A Chiomonte non si sta scavando il tunnel sotto il quale passerà il treno veloce. A Chiomonte si sta facendo in sostanza poco più che un sondaggio geognostico, che se va bene fungerà da discenderia. Ovvero, se stessimo costruendo una casa, staremmo facendo un buchetto per vedere se le fondamenta staran su o invece crollerà l'edificio.

b) Per cominciare a fare questo "buchetto" ci han messo 20 anni. Dicevano che il traffico merci su rotaia sarebbe cresciuto, triplicato, raddoppiato - spostando di cinque anni in cinque anni il punto di risalita - e invece non ha fatto altro che scendere. Ora dicono che dal 2035 si decuplicherà, il traffico. Ma chi può crederci ancora?

c) Per fare questo "buchetto" stanno togliendo risorse in ogni dove: scuola, sanità, trasporti locali, servizi. 

d) Questo "buchetto" costerà alla valle di Susa e alle tasche degli italiani tutti non solo i 25 miliardi di euro (cifra definitiva?) ma un danno ambientale incalcolabile, che in un'epoca in cui si torna pian piano alla terra e al territorio non è certo assennato fare.

e) Giusto per curiosità, mi piacerebbe sapere in quanti decenni pensano di ammortizzare la spesa affinché ci sia una ricaduta positiva sul territorio. Se io, a casa, compro un pannello solare è perchè penso che in tot anni il risparmio ripagherà l'investimento e poi io ne trarrò benefici in termini di euro nel portafogli oltreché ambientali. Quanto tempo servirà in questo caso?

Lo Stato in valle di Susa si gioca la faccia. Si è troppo esposto per dire "Adesso basta, non se ne fa più niente". Anche fosse per motivazioni economiche o tecniche innegabili. Le ragioni si possono solo immaginare e non voglio darle per scontate. In questo contesto, ormai compromesso dall'impossibilità di tornare indietro anche se la ragione stesse lì, la valle di Susa vive e l'Italia tutta dovrebbe ragionare.

martedì 20 agosto 2013

Ogni cosa è illuminata


Un bel libro è quello che leggi anche quando non lo stai leggendo. Un bel libro è quello che divori e poi rileggi subito per non lasciare indietro le briciole. Un bel libro ti parla anche quando sta nella borsa. Libro, che hai portato anche se sai che andrai in un posto in cui non potrai leggerne neanche una pagina. Ho letto molto qui al mare. Libri belli e libri che non mi sono piaciuti. Quello che ho appena chiuso, per fortuna, l'avevo lasciato per ultimo perchè finire una bella vacanza con un libro stupendo è come svegliarsi da un sogno sorridendo.


Ho letto Partigia di Sergio Luzzato e l'ho trovato pesante, ridondante, inutilmente pomposo (niente di ideologico, solo uno dei libri più noiosi di quest'anno). Ho letto L'ombra del vento di Carlos Ruiz Zafon e non mi è piaciuto, nostante parlasse di libri e di amore per i libri. Ho cercato di leggere Point Lenana di Wu Ming 1 e l'ho lasciato dopo 50 pagine (magari non era il momento, ritenterò a casa).

Poi, c'era ancora lui. Con la sua copertina gialla, semplice. Normalmente leggo prima i libri e poi vedo i film (eventualmente) ma in questo caso è stato il contrario. Il film l'ho amato molto e rivisto più volte. Il libro è ancor più bello anche se, a suo modo, strano ai limiti dell'onirico. Dietro c'è una realtà dura e dolorosa, c'è la difficoltà della scelta.

"Cerca di vivere in modo che tu possa sempre dire la verità, ho detto. Va bene, ha detto lui e io l'ho creduto e questo era abbastanza". 2002, Guanda Editore, "Ogni cosa è iluminata" di Jonathan Safran Foer, 12 euro. In copertina, due righe di Pietro Citati di Repubblica che condivido appieno: "Qualche volta, basta un solo libro per cancellare i nostri dubbi sulla letteratura di oggi".

Il film ha dato nella mia testa le voci ai protagonisti ma sono tanti i personaggi "minori" che sul grande schermo non hanno potuto trovare voce e che, invece, hanno grande ruolo. Il grande ruolo che ha la memoria di ciò che è stato in quello che siamo. La memoria. Perché la nostra vita non sia solo un trattino staccato da altri trattini ma una linea unita che porta sempre verso una consapevolezza maggiore, verso un futuro più solido e più giusto, per quanto sia doloroso e difficile e a volte persono contrario a noi stessi.

"Questo mi ha fatto soffrire. Vi dirò il perché. Io sapevo perché lui era a un pochino meno che piangere. Lo sapevo molto bene, e avrei voluto andare da lui e dirgli che anch'io avevo un pochio meno che pianto proprio come lui e fa niente se poteva sembrare che lui non sarebbe mai diventato una persona pregiata come me con tante ragazze e così tanti posti famosi dove andare, perché sì, invece lo sarebbe diventato. Sarebbe stato esattamente come me. E guardami, Piccolo Igor, i lividi se ne vanno via, e così anche l'odio, e così anche l'idea che tutto quello che ricevi nella vita te lo sei guadagnato".

Leggetelo, Ogni cosa è illuminata. Vi resterà qualcosa e sicuramente qualcosa di bello.




sabato 17 agosto 2013

Lo Stato siamo Noi?

Un porto che non viene sistemato per mancanza di fondi a Imperia. Un ponte che non viene sistemato per mancanza di fondi (con difficoltà notevoli per i cittadini) in un altra cittadina ligure. Guardare il Tg regionale in Liguria un po' mi riconcilia con il tiggì regionale (almeno riconcilia la piemontese che è in me) e un po' mi fa arrabbiare. Se ciascuno di noi avesse l'opportunità di guardare ogni giorno un tiggì regionale diverso si renderebbe ancor più conto di quanto sia importante fare sistema tra cittadini, per capire dove lo Stato toglie e dove lo Stato vuole mettere.

Questo Stato continua a togliere dappertutto nelle "piccole" (e poi discutiamo delle dimensioni) opere utili a tutti, nella scuola (tanto le famiglie cercheranno sempre di spendere per far studiare i figli), nella sanità (non la spendi una milionata o meglio ti indebiti se c'è in gioco la tua vita o quella di tua figlia?) e nei servizi per metterli laddove è sempre più evidente non servano a nulla. Questo Stato dà l'impressione di stare deliberatamente cercando di rimetterci nella condizione di povertà sociale, economica e culturale del primo dopoguerra - ma senza le medesime speranze nel futuro - perchè si arrrivi a vivere di niente e con niente, ad accontentarci di niente e a morire per niente. Perchè ci sia gente che continui ad avere tutto, a usare tutto (soprattutto il pubblico) come fosse privato e ricatti la povera gente dicendo loro che andrà a spendere altrove i suoi soldi.

Questo Stato non rappresenta nessuno. Non aiuta le aziende e tanto meno i lavoratori. Non aiuta le donne e tanto meno le categorie sociali più deboli. Non aiuta le famiglie e tanto meno le unioni di fatto. Non aiuta nessuno se non chi i soldi li ha e può continuare a spenderli come meglio crede.

Questo Stato - ultimamente lo dico ogni legislatura - è peggio di quello precedente o nella migliore delle ipotesi uguale. E io non capisco perchè le persone non si arrabbino. Siamo italiani, d'altronde, ci lamentiamo ma la poltrona è sempre comoda, la famiglia sempre accogliente e siam semre pronti a perdonare i furbi se son simpatici.

Mi ricorda la lotta dei coltivatori in valle di Susa perchè il torinese che raccoglie le castagne pensa che sian sue perchè non c'è chi gli spara se le prende ma c'è chi ha lavorato tutto l'anno per far cscere i marroni e con fatica. O quelli che qui, al mare, alle sette piazzano dieci brande sulla riva e si presentano alle undici pensando che la spiaggia sia loro perchè è pubblica.

Lo Stato siamo noi. Ci riflettiamo su?

sabato 3 agosto 2013

Amianto

Lo so. Ultimamente lo dico spesso che un libro è bello. Forse sono fortunata. Oppure ho imparato a seguire i saggi consigli. Ma "Amianto" di Alberto Prunetti (AgenziaX, 13 euro) è un bel libro, che tratta senza retorica e, con quella profonda umanità a cui attinge l'amore familiare, un tema duro e difficile.

Oggi lo si sa. Di amianto si muore. Ma quando comincia questa storia, che un po' andrebbe scritta con la S maiuscola perché è una storia vera, Renato non lo sa che di amianto si può morire e come tanti va a lavorarci a stretto contatto. Sarà che Prunetti è della provincia di Livorno, nato in quelle terre in cui anche le tragedie e i lutti sono affrontati con quella vena di ironia che aiuta a sopravvivere, ma questo racconto di vita operaia riesce ad essere profondo e allo stesso tempo leggero come l'acqua che scorre in un ruscello di montagna. Acqua che ti racconta la vita e la morte senza mai smettere di scorrere, guizzare, stagnare quel tanto che basta per far riprendere vita e fiato a chi la abita.

Una vita e una morte che ne racconta tante altre. Scrive Prunetti: "Se poi una scintilla raggiunge una cisterna di gasolio e l'impianto si incendia, sembra sciogliersi anche l'asfalto per le strade di Busalla. Ma loro, i busallesi, sono costretti a vivere con il drago, come i tarantini, come i pimobinesi: sono stretti nella morsa della fabbrica sia fisicamente, sia psicologicamente, perché lo stabilimento dà il ricatto del pane e pretende il diritto di inquinare".

È un ricatto che, oggi, abbiamo imparato a conoscere bene. Sarà l'affinità anagrafica con l'autore ma mi ritrovo in molte descrizioni che fa di due generazioni: la sua e quella dei suoi. Genitori che hanno lavorato una vita per far studiare i figli, per risparmiare loro non tanto la fatica ma un lavoro venefico, che prima o poi li avrebbe uccisi.

É anche un libro tenero, una dichiarazione d'amore verso il padre, che mi ha commosso molto. Un breve stralcio: "Ricordi. Quando camminava ancora un poco, lo portai a fare alcuni giri. Le spiagge bianche di Rosignano, per sentire d'inverno le libecciate poco prima del tramonto, quando le ciminiere grigie della Solvay alle spalle torreggiano dal cielo terso sui residui di bicarbonato industriale e simulano un tropico sterile alla livornese. Il poncino dal Civili vicino alla stazione di Livorno. Una birra leggera al bar del benzinaio, sosta obbligata del camionista, con uovo sodo a sostegno dello stomaco. Una caciuccata vicino ai quattro mori, al porto. La nave Venus incagliata a Caletta, a Castiglioncello, vicino al vecchio Cardellino, il locale in cui aveva lavorato tanti anni prima come cameriere e dove aveva ascoltato Nada cantare, quando furono immortalati dal flash di Nick Vampata. Il cimitero di Rosignano Marittimo, dove sono sepolti i miei nonni paterni e Pietro Gori, il cavalier errante dell'anarchia, col suo monumento che 'l'Apuania operaia dedicò', incluso giro turistico tra le tombe dei vecchi stalinisti livornesi che al posto della croce sulle 'urne de' forti' recano incastonata nel marmo polito la falce e il martello".

È difficile condensare una vita in un libro. Soprattutto la vita di qualcuno che è significato tanto per noi ed è contemporaneamente entrato, vittima e morte bianca, nelle tragiche pagine della storia dell'amianto. Prunetti ci riesce, in punta di piedi ma con forza, lasciando al lettore la speranza che il futuro sia diverso anche se le basi di partenza non sono buone, tra difficoltà, mancanza di lavoro e precariato.
Così chiudo come chiude l'autore, che sembra che la speranza non ci sia ma ci sarà sempre fin quando qualcuno avrà voglia di lottare: "Queste sono le ultime cose che vorrei dirgli: babbo, il sacco di polvere di marmo al secondo piano io ce l'ho portato. Ma la ragioneria l'hanno già saccheggiata i padroni e per noi, figlioli degli operai che hanno provato a salire le scale, non c'è rimasto niente. Ci hanno solo preso per il culo, Maremma schifosa".




mercoledì 31 luglio 2013

Leggere Lolita a Teheran

L'ho cominciato tempo addietro ma l'ho abbandonato due volte per due libri più "facili" e ora che sono riuscita a finirlo mi spiace non avergli concesso subito il tempo e l'attenzione che meritava. "Leggere Lolita a Teheran" di Azar Nafisi (Adelphi, 10 euro) racconta la rivoluzione iraniana vista attraverso gli occhi di una donna nonché insegnante di letteratura inglese all'Università, ovvero (cultura, donne e occidente) tutto quello che l'islamismo di Komeini ha cercato di annullare quanto più possibile.

Azar Nafisi è un'insegnante che non condivide, come la gran parte dei laici, la linea politica del governo di Komeini e si interroga. "Mi trovavo in un bel dilemma. Se avessi rifiutato, abbandonato i giovani alla mercé di un'ideologia corrotta, sarei stata considerata da alcuni una traditrice. Ma se avessi lavorato per un regime che aveva rovinato la vita di tanti colleghi e studenti, agli occhi degli altri avrei tradito ciò in cui credevo".

Si interroga sul suo ruolo di insegnante così come di donna e fino all'ultimo si rifiuta di farsi imporre un velo che per lei, laica, non ha significato. Si interroga sui diritti negati alle donne e sul ruolo di quelle stesse donne all'interno della famiglia e della rivoluzione. "Prima che Farideh scegliesse la clandestinità e si unisse al suo gruppo rivoluzionario, fuggendo all'inizio in Kurdistan e poi in Svezia, noi tre ci ritrovavamo spesso a discutere di letteratura e politica, a volte fino a notte fonda. In politica Farideh e Mina erano agli estremi - una era marxista militante, l'altra una monarchica convinta. Ciò che le univa era l'odio incondizionato per il regime".

È un libro ricco di particolari che riescono a farti immergere in un mondo per noi lontano e, a volte, incomprensibile. Un mondo che in quindici anni, tra il regime di Komeini e la guerra contro l'Iraq, ha cambiato volto e non in meglio. Ma si era donne e madri anche in quel periodo e così Azar Nafisi scrive: "Quando nacque mia figlia la accolsi come un dono, che in qualche modo misterioso mi aiutò a non impazzire. Eppure non riuscivo a darmi pace, e il pensiero che i loro primi ricordi, a differenza dei miei, sarebbero stati inquinati da quanto ci succedeva intorno non smetteva di tormentarmi".

La letteratura inglese è l'altra chiave. Un'altra chiave che il regime vedeva aprire le porte di Satana poiché proveniente da quel mondo occidentale che cercava in ogni modo di annientare. Henry James, Bronte, Austen sono un modo per resistere e anche un modo per interpretare il presente. Talvolta la Nafisi si perde un po' in queste parti di lettura e rilettura dei testi tuttavia serve al lettore per capire il suo modo di vedere e vivere l'Iran.

Non è un libro a cui si può dedicare una lettura superficiale. Pretende attenzione e lo sconsiglio a chi ha bisogno di continui colpi di scena. È uno spaccato di un recente passato che, personalmente, ai tempi non avevo cercato più di tanto di approfondire e non so se per la mia giovane età o l'esorbitante distanza culturale. "Leggere Lolita a Teheran" mi è piaciuto e mi ha dato nuovi spunti. Fatemi sapere che ne pensate, se lo leggerete o l'avete letto.

martedì 30 luglio 2013

Il fazzoletto della 42esima Garibaldi ed io.

Lontana dalla valle di Susa, seguo con gli occhi di altri (amici ma anche articoli di giornale di cui ben conosco il taglio) ciò che accade in questi giorni. Penso al foulard della 42esima Garibaldi che ho lasciato a casa - quando si va in vacanza non si può portare tutto, anche se io ci vado vicino - e che oggi vorrei poter indossare. Mi sembra incredibile e assurdo che alcuni compagni e compagne, con cui ho condiviso tanti momenti di vita, possano essere stati indagati come "terroristi o eversori" e che una delle prove di cotanta eversione possa essere il fazzoletto della nostra sezione Anpi.

Un fazzoletto, una felpa, una bandiera. Sono i simboli che spaventano, più delle azioni e delle persone. Perchè una persona si può zittire; un'azione si può censurare o condannare ma un simbolo resta al di là del singolo e del tempo. Allora si prova ad associare il simbolo a qualcosa di innegabilmente sbagliato, per farlo diventare meno importante o per intimidire chi in quel simbolo crede.

Quel fazzoletto, per la nostra sezione Anpi, rappresenta tutti gli insegnamenti che i nostri partigiani ci hanno lasciato, i loro sacrifici e la loro memoria. Rappresenta una generazione di giovani che ha messo in gioco la propria vita per liberarci dal regime fascista e da tutto quello che di orribile ha significato. Rappresenta la voglia di libertà, di democrazia e di partecipazione. Rappresenta la forza di liberarsi dai soprusi, per essere tutti liberi ed uguali, per avere tutti le medesime opportunità. Valori che valevano ieri come valgono oggi, immutati, anche se devono confrontarsi con un contesto storico diverso.

Quel fazzoletto è un simbolo che tutti noi portiamo con orgoglio e che non fa di noi, nemmeno in parte, dei terroristi o degli eversori. E rifiuto anche la sola idea che tale accostamento sia fatto, appositamente, per essere esteso a tutti coloro che condividono i valori che quel rosso porta con sè.

domenica 28 luglio 2013

Turisti come gallinelle da spennare...

Ciclabile di Arma, pedalando verso Sanremo. Ci fermiamo in un baretto, che affaccia proprio sulla ciclabile... Ci sono le rastrelliere per la bici e i tavolini. Tre gelati - confezionati, della Motta, non sciolti - e mezzo litro d'acqua fanno sette euro. Massimo mi dice: vedi perchè non c'era il tabellone dei gelati per sceglierli? Se ci fosse stato avrebbero dovuto venderli a prezzo imposto.
Non ero lì vicino quando quattro inglesi sono andati a comprare i gelati. Chissà quanto glieli avrà fatti pagare, il ladro.

Da Marina degli Aregai a Sanremo, laddove c'erano i binari del treno - spostato nell'entroterra - hanno realizzato una bella pista ciclabile. Bella per essere una ciclabile italiana, s'intende. Un'idea straordinaria e naturalmente la ciclabile è frequentatissima, soprattutto dalle famiglie poichè i pericoli sono decisamente inferiori al circolare sulle strade. Ci sono tanti bike rent, che lavorano bene e tutto sommato non costano neppure cari.

Poi ci sono i ristoratori, liguri e no, e i gestori del bar che spennano le persone quanto più possibile e in ogni modo, rovinando tutto il lungo e lento processo di attrazione del turista - straniero come italiano - che andrebbe fidelizzato, trattandolo bene e con rispetto. In periodo di crisi, poi, spennare chi sceglie la bicicletta e non chi scende dai lussuosi yaght che battono bandiera straniera nel porto di Sanremo è veramente meschino.

Naturalmente quel gestore di bar non vedrà mai più un mio euro ma mi resta l'amaro in bocca pensando a quante altre persone penseranno male dei liguri e della Liguria dopo essere stati lì come in altri numerosi locali della Riviera.

lunedì 15 luglio 2013

Se questo è un governo...

Manco da qualche tempo da queste pagine. Me ne scuso e vi racconterò cosa ha rubato tempo al mio scrivere (solo perché ha risvolti interessanti dal punto di vista delle opinioni e non per l'uso del mio tempo in sé) ma non oggi.

Oggi voglio ricominciare a parlare su questo blog, chiedendo a me stessa e a voi cosa deve fare ancora questo governo Pd/Pdl prima che il Paese si renda conto che, forse, son tante braccia rubate all'agricoltura - ma la terra è bassa, ce la farebbero?

Ieri l'illustre - si fa per dire - Roberto Calderoli (leghista) vice-presidente del Senato (non proprio la compagnia delle freccette del bar Sport, dunque) ha insultato pesantemente la ministra italiana di colore Kyenge. Non solo non sono arrivate in tempo zero le sue dimissioni ma nessuno le ha pretese. Ha provato a chiederle Napolitano ma il suo peso politico è ormai quello di una farfalla e non è stato neanche considerato.


Che gli insulti di Calderoli siano gravissimi mi pare palese non solo per gli insulti in sé - vergognosi - ma anche per il becero esempio che si dà al Paese e il fiato che si dà a tutti quei gruppi xenofobi che si rifanno al fascismo. Tanto che Forza Nuova, oggi a Pescara, ha pensato bene di appendere niente meno che dei cappi ai lampioni laddove la ministra Kyenge era attesa per una visita. Una protesta contro l'immigrazione doppiamente ignorante perché i neofascisti dovrebbero sapere che la ministra è italiana quanto loro.


Non voglio addentrarmi nella grandissima figura di guano fatta dal ministro Alfano (e dalla ministra Bonino) sul caso Shalabayeva. Sottolineerei solo che tra le varie scuse addotte c'è quella che loro ignoravano che sul passaporto lei avesse il suo cognome da nubile. Per fare il ministro, evidentemente, basta avere un ridottissimo numero di cognizioni e saperi e la grande attitudine a negare sempre. Prima o poi una testa cade per salvare la loro.


Tra tutti i grandi luminari di questo governo spicca Bondi. Non il portavoce del Berlusca (quello che quando era ministro ai beni culturali è crollata Pompei) ma Enrico Bondi, che appena eletto commissario dell'Ilva ha pensato bene di dire che se i tarantini muoiono è perché fumano troppo. L'inquinamento durato decenni non c'entra, secondo lui, e a me piacerebbe che fosse costretto per vent'anni a vivere a Taranto in due stanze con vista sullo stabilimento, a lavorare all'Ilva e a prendersi lo stipendio di un operaio dell'altoforno.


Le parole hanno ancora un significato? Se questo è un governo, beh, il ministro può farlo davvero chiunque.

venerdì 14 giugno 2013

Non so niente di te

Ho appena finito di leggere un libro molto bello che consiglio vivamente e che mi ha fatto fare un sacco di riflessioni sul "downgrade", sull'essere genitori, sulla ricerca di se stessi e del proprio ruolo nell'esistenza umana. Il libro si intitola "Non so niente di te" ed è l'ultimo romanzo di Paola Mastrocola. Del libro, posto la copertina ma non vi dirò nulla se non che vale davvero ogni pagina (edito da Einaudi, non è propriamente economico al prezzo di 18,50 euro) e che, a dispetto del titolo, non ha nulla di romantico se non le pecore. Sì, le pecore. Non capre. Pecore, preziosissime pecore Shetland.

Vi dirò invece delle riflessioni che mi ha sollecitato. La prima riguarda il cosiddetto "downgrade" ovvero la scelta di alcune persone di abbandonare professioni ambite o ben pagate per tornare a vivere con professioni più umili ma più umane, più solidali, più naturali ma certamente meno remunerate. Se il downgrade professionale è certamente un lusso, sono convinta che tanti di noi potrebbero permettersi un downgrade quotidiano negli usi delle cose per ridurre gli sprechi e razionalizzare le risorse, partendo dall'eliminazione degli acquisti che si fanno solo per "status symbol". Non starò a fare degli esempi. Non che non ce ne siano ma credo sia riduttivo e rischi di concentrare il problema su questo o quel prodotto in particolare, quando invece, dai vestiti al cibo, dalla tecnologia ai mezzi, dallo sport all'arte è sufficiente pescare nel mazzo.

A me non piace buttare via. Sono un po' fissata. Ma vivere in un continuo usa e getta credo sia fortemente negativo, non solo per noi ma soprattutto per le generazioni future a cui non daremo alcun insegnamento costruttivo e a cui lasceremo un mondo stracarico di rifiuti.

Essere genitori è anche questo, per me, insegnare al rispetto. Non solo delle persone ma anche delle cose, del lavoro che sono costate a chi le ha fatte e a chi le ha comperate. Non è facile in un mondo che butta sul mercato ogni giorno una nuova moda, un nuovo oggetto del desiderio di cui sembra che nessuno possa fare a meno. E' una battaglia continua, immane. La cosa più difficile è insegnare ai propri figli a stare bene con se stessi anche se non hanno la griffe o l'oggettistica del momento, anche se in teoria ce la potremmo pure permettere. Insegnare loro a essere indipendenti. La vita è una lunga ricerca di sé. Ci sono persone fortunate che si trovano subito. Altre che non si troveranno mai ma che, forse proprio per questo, aiutano tante altre nella ricerca. 

Il libro della Mastrocola mi ha fatto riflettere anche su questo e su quanto sia difficile essere genitori e su quanto sia complicato capire quando è giusto che l'uccellino voli con le proprie ali e se necessario cada e si faccia male. Essere genitori - e madri in particolare - è il mestiere più difficile in assoluto perché la paura di essere almeno corresponsabili se non responsabili di qualsivoglia errore dei figli è difficile da dominare. Da figlia, so che mia madre e mio padre non sono responsabili dei miei errori ma, da madre, non riesco ad alleviare quel peso. Perché, in fondo, è così poco quello che sappiamo degli altri. Anche quando crediamo di conoscerli bene.

giovedì 6 giugno 2013

Una montagna di libri (ma non solo) contro il Tav

Questo fine settimana, a Bussoleno, si terrà la seconda edizione di "Una montagna di libri contro il Tav" ovvero una grande rassegna culturale e un'occasione per guardare alla valle di Susa e alla sua lotta più che ventennale contro la Torino-Lione sotto un punto di vista diverso dal solito. Una fiera dell'editoria all'aperto, condizioni meteo permettendo, e un momento di discussione e approfondimento con autori ed editori.
Domenica si tornerà in Clarea dove le parole dei racconti e degli autori accompagneranno quei percorsi compiuti ormai centinaia di volte, fino a quel cantiere, ferita aperta e sanguinante nel cuore della valle.

Io non sono una scrittrice ma, per questa occasione, voglio condividere con voi alcuni pensieri. Chiamiamolo un racconto, se volete, sul mio personale legame con questa valle meravigliosa e ostile al tempo stesso.

Radici

Ci sono persone che nascono con le radici. Nascono in un posto e subito sanno di appartenergli. Sarà che io son nata in un paese della seconda cintura di Torino, simile ad altri cento paesi di cintura, ma non ho mai pensato che nel posto in cui sono nata avrei trascorso la mia vita. Pensavo di essere una persona senza radici, incapace di affezionarsi a un luogo, seppur bello. Ci sono persone così, che amano viaggiare, che amano i luoghi ma che non stringono con essi alcun legame se non quello del ricordo.

Poi un giorno, 12 anni fa, sono approdata in valle di Susa per restare. C'ero già stata tante volte ma solo di passaggio. Sono venuta qui e, come una piantina che finalmente trova il terreno giusto, ho messo pian piano radici. Non me ne sono quasi accorta. A un certo punto mi è sembrato di voler andare e non ho più potuto. Qui ho costruito legami solidi e intensi non solo con le persone ma con i luoghi, con le tradizioni, con il passato. Sono diventati anche un po' miei e io ormai appartengo loro indissolubilmente. Quella piantina si è rafforzata grazie al terreno da cui ha trovato nutrimento e così io devo molto a questa valle e tento, come posso, di restituirle qualcosa, di proteggerla da chi non la rispetta, da chi la calpesta, la strazia, la umilia.

E' una valle meravigliosa la valle di Susa. Ostile anche. E dura, a volte. Come la sua gente, che da questa terra ha assorbito pregi e difetti. E' una valle resistente come la roccia delle sue montagne, perché un'altra terra sarebbe già morta al suo posto. Invece lei tiene duro e noi con lei. Ogni mattina, vado sul balcone, guardo le montagne e capisco che anche se dovessero strapparmi via di qua, le mie radici affondano già talmente tanto in questa terra che un pezzo di me resterebbe comunque in valle di Susa.

venerdì 17 maggio 2013

Stop homophobia

Oggi è la giornata mondiale contro l'omofobia e la transfobia.

Voglio celebrarla con una "chicca" di conversazione avuta con una persona (italianissima) - che il 100% delle persone non avrebbe alcun problema a definire rispettabile, gentile ecc ecc - parlando, post trasmissione televisiva, di Wladimir Luxuria.

Persona (P): «Ah guarda mi fa venire un nervoso...»
Io: «Perché?»
P: «Una volta quelli come lui mica vivevano a lungo, quelli con un handicap» (mima un calcio dalla rupe a mo' di spartani)
Io: «Ma guarda che essere transessuali non è mica un handicap»
P: «Magari no ma dovrebbero stare a casa loro non andare in tivù»
Io: «In un posto con delle gabbie, cartelli e un percorso guidato, no?» (detto OVVIAMENTE con tono ironico)
P: «Oh beh, no... ma a casa loro... perché se hanno un problema fisico non mica colpa della collettività»
Io: «Ma veramente... non hanno nessun problema fisico. Hai più problemi fisici tu»

La morale è che con chi ha i paraocchi non si può discutere. Il pregiudizio è talmente radicato da cancellare ogni forma di ragionevolezza. Bisognerebbe organizzargli un gay pride sotto casa ogni settimana.

Siamo tutti differenti. Questa è la vera, grande, inestimabile ricchezza di questa umanità.

mercoledì 8 maggio 2013

Imu o non Imu arriveremo a Roma

Questo post è ciò che in gergo tecnico si direbbe un editoriale. Lo specifico per quanti tendano a considerare "articolo" un qualsivoglia scritto nella pagina delle opinioni o delle lettere. Un articolo è (o dovrebbe essere) il resoconto, quanto più obiettivo e completo, di un avvenimento, firmato generalmente da un giornalista. Un editoriale è un'opinione, più o meno autorevole, che parte da fatti reali (che nel giornalismo non si dovrebbe inventare niente) per dare una personale interpretazione degli eventi, generalmente seguendo la linea della testata su cui è scritto. Una lettera nella pagina delle opinioni, dunque, non è un articolo e neanche un editoriale. E' un'opinione, più o meno autorevole, di un lettore.

Ciò premesso racconto un fatto. Quello da cui sono partita. Conosco una donna madre di famiglia (che non cito perché non è dirimente e perché non ho chiesto la sua autorizzazione) il cui marito è stato licenziato dopo   tanti anni di lavoro in fabbrica. In famiglia sono in quattro e hanno la grande "fortuna" di avere la casa in proprietà. Per qualche mese ancora, il marito di questa donna percepirà 600 euro al mese di cassa integrazione. Poi, la prospettiva sarà il nulla. Lei non lavora perché si occupa dei bambini, non abbastanza grandi per poter stare a casa da soli. Come sempre accade, lo Stato è manchevole nei confronti delle donne e soprattutto delle mamme che considera sostanzialmente nulla e che di fatto, invece, sono l'unica forma di welfare esistente.

Ieri sera ho fatto il grande errore di guardare un pezzo di Ballarò. Vedere quelle donne, dietro i cancelli della fabbrica che le ha lasciate a casa, chiedere aiuto e sentire la risposta (per citare quella che mi ha fatto più invelenire) della europarlamentare Pdl Lara Comi mi ha fatto venire il latte alle ginocchia. In realtà anche molto altro, ma non lo scrivo perché le parole sono pietre e vanno usate con equilibrio.

Il problema, oggi, mia cara Lara Comi non è per nulla l'Imu. Perché queste famiglie in difficoltà, per larga parte, usufruiscono già degli sgravi, non solo per la prima casa e per i figli ma anche perché la fascia Isee in confronto alla sua è talmente bassa che in un grafico matematico sarebbe non rilevabile.

Il problema, oggi, non è l'Imu ma è il fatto che abbiamo al governo persone come Lei, che dell'Imu fanno una bandiera solo per poter stare là, nella stanza dei bottoni, a fare tutt'altro che il bene del Paese. Il problema, oggi, non è solo la mancanza di lavoro (su cui io, se governassi, mi concentrerei invece di fare proclami) ma la miopia ormai palese di chi ci governa e ci ha governato negli ultimi 40 anni e di cui la nomina di viceministri, sottosegretari e presidenti di commissione è lo specchio evidente. Ricordo che sono riusciti a trovare un posto a tutti i trombati alle elezioni, tra cui Formigoni (accusato di corruzione e appropriazione indebita quando era presidente di Regione Lombardia) o Biancofiore, il cui pensiero "illuminato" sull'omosessualità ha fatto storia e satira.

Ricordo che l'Imu, tassa che andrebbe versata ai Comuni e su cui lo Stato trattiene il "pizzo", serve per dare servizi (scuola, trasporti, assistenza ai disabili e alle fasce deboli) che il Comune non potrebbe più erogare diversamente. Quanto costerebbe tutto questo alle famiglie in difficoltà?

Io credo e non penso di sbagliare, che a quella famiglia interesserebbe di più riavere la speranza di poter dare tutti i giorni da mangiare ai propri figli che quella di non pagare l'Imu (o persino di riavere indietro le poche decine o centinaia di euro versate). Io credo che questa miopia trasversale stia decidendo del futuro dei nostri figli e che la gran parte delle persone realmente interessate a non pagare l'Imu si potrebbero permettere questo e altro.

Intanto sono passati mesi dalle elezioni. Abbiamo un governo che non abbiamo votato e che, in compenso, non sta facendo nulla di quello che serve all'Italia. Buona camicia a tutti.


giovedì 25 aprile 2013

25 aprile e cultura

Il mio discorso per il 25 aprile. Buona festa a tutti.

La 114esima Garibaldi era distaccata alla scuola della Rocca sopra Mocchie, a Condove, sulla strada per Vaccherezza. Da qui, oggi, vogliamo partire per raccontare la Liberazione. Da una scuola, oggi come ieri, in Italia, simbolo di una società in difficoltà, che non vede i suoi giovani come un futuro se non pezzi di un ingranaggio funzionale al potere.
Ottanta anni fa si andava a scuola e si imparava a essere giovani fascisti. Non c'era scelta. Ci si sedeva e si imparava a odiare il negus, a odiare il nemico e a esaltare il grande destino dell'Italia nel fascismo, mentre lo stesso fascismo impediva la libera circolazione delle idee e delle persone, picchiava, torturava, mandava in esilio, mandava allo sbaraglio i figli di un Italia in ginocchio su fronti impossibili da difendere.
La scuola non era cultura ma propaganda. La maggior parte dei bambini cresceva con un pensiero univoco dove ogni dubbio era zittito o punito.
Dopo la Liberazione la scuola è diventata la casa di tutti, dove il figlio dell'operaio poteva avere la stessa istruzione e le stesse possibilità del figlio del notaio. Un concetto rivoluzionario per l'epoca. La Liberazione non aveva regalato all'Italia solo la libertà e la democrazia ma anche la speranza, che il futuro dei nostri figli sarebbe stato migliore.
Quel risultato era il frutto di una profonda presa di coscienza dello scempio che la dittatura stava facendo del Paese e del sacrificio di tanti ragazzi e ragazze che hanno dato la propria vita per permettere ad altri coetanei di fare un salto in avanti, di essere liberi, pensanti.
Oggi sembrano tornare quei tempi bui. La scuola è nuovamente vessata, maltrattata, impoverita. Perché ancora una volta l'assenza di istruzione e di cultura, più in generale, è funzionale a un potere che ci vuole vuoti, inerti e inermi di fronte a qualsiasi sua scelta.
La nostra scelta deve essere differente. Dobbiamo scegliere di partecipare, di capire e di difendere quei diritti, tra cui quello all'istruzione, che sono costati vite umane, sangue, sacrifici, povertà e dolore.
Quella scuola di montagna sopra Mocchie, da cui siamo partiti, oggi è abbandonata, vuota, morta. Non lasciamo che la nostra scuola, quella dell'Italia tutta, faccia la stessa fine. Lottiamo per sapere e per essere.

mercoledì 24 aprile 2013

La colpevole ignoranza

Domani ricorre il 78esimo anniversario della Liberazione. 78 anni son tanti. Meno di quelli del neo-rieletto presidente della Repubblica ma tanti. Allora può avere senso chiedersi, oggi, cosa significa scendere ancora in piazza il 25 aprile per ricordare il giorno in cui la guerra contro la dittatura e il nazifascismo fu vinta. Il senso sta qui, nelle parole della lapide sulla sinistra di questo post, la cui foto (con grande senso dell'opportunità) Mario ha postato sulla pagina dell'Anpi Bussoleno-Foresto-Chianocco. Per leggerla più comodamente, è sufficiente cliccarci sopra. E quando Calamandrei invitava ad andare là dove sorgono le lapidi che ricordano il sacrificio dei partigiani, sono sicura che immaginasse come tutti avrebbero potuto sentire quello che io sento leggendole e scorrendo i nomi di tutti quei ragazzi e quelle ragazze che hanno dato la vita perché oggi potessimo avere quelle libertà fino ad allora negate.

Stamattina ho dato una lettura veloce a La stampa. Invito a leggere il Buongiorno di Gramellini perché dà un paio di spunti per profonde riflessioni. Gramellini racconta, tra l'altro, di una persona che non sa esattamente cosa si festeggi domani e si stupisce che i bambini stiano a casa da scuola. 

La riflessione che mi è cresciuta dentro è arrivata quando nell'arco di questa mattinata, in più d'uno mi abbiano chiesto cosa avrei fatto domani e alla risposta «Vado alla commemorazione» mi abbiano guardata come se fossi una pazza nostalgica. In sostanza, per la più parte degli italiani, il 25 aprile non è più memoria ma soltanto un giorno di festa, da agganciare con il fine settimana per un lungo ponte di relax.

Tante volte mi sento aliena. Stamattina, in modo particolare. Perché l'unica volta che il 25 aprile ero al mare con la famiglia (grazie alla concomitanza con la Pasqua) siamo andati alla commemorazione del 25 aprile ad Arma di Taggia. Mi sento aliena perché mi sembra quasi di aver bisogno di una scusa per ritenere importante questo giorno, la memoria, l'insegnamento della Storia.

E mi sembra chiaro, spero non sia solo l'amarezza a parlare, che agli italiani della Storia non freghi nulla. Ancora stamattina un servizio del quotidiano succitato dileggiava il M5S per aver eletto Rodotà con quattromila e rotti cyber-voti quando con qualche televoto in più o in meno si è decretato il vincitore di non so quale talent show. Ma qui il problema non sono i ragazzi del M5S a cui si può criticare qualsiasi cosa ma non la voglia di partecipazione. Qui, il problema è ben più grave e se non ce ne rendiamo conto, domani potrà arrivare un Mussolini qualsiasi e si troverà di fronte la stessa ignoranza dei primi del '900. Ma questa volta sarà un'ignoranza colpevole perché l'opportunità di non esserlo, oggi, l'abbiamo.

Domani, quando di fronte a me ci saranno ancora i pochi superstiti di quella Resistenza (da cui, ricordarlo non fa mai male, è nata la nostra Costituzione che tutti oggi tirano per la giacca secondo convenienza) io mi sentirò meno aliena ma un po' colpevole perché mi sembra sempre di non fare abbastanza, di non meritare l'eredità dei partigiani e di tutti i civili che li hanno aiutati, nascosti, sostenuti, nutriti, vestiti e incoraggiati.

L'8 settembre di quest'anno saranno 80 anni dall'inizio della Resistenza. I tempi sono cambiati ma c'è un'identica necessità di resistenza, oggi. Rendiamo il giusto tributo alla lotta di Liberazione: non torniamo ad essere sudditi, neanche (o soprattutto?) culturalmente. Libertà è partecipazione. Qualcuno molto più bravo di me l'ha scritto e cantato. Crediamogli.






sabato 13 aprile 2013

Emergenza democratica in val Susa?

Domani sarò qui ad ascoltare con l'Anpi Bussoleno. 

Vi terrò informati, se riesco, in tempo reale.


H 10
Cominciamo con l'introduzione dell'ANPI Grugliasco. Il tema è il Tav visto dalle sezioni ANPI. Un tema che l'associazione nelle sue dirigenze provinciali, regionali e nazionali ritiene di "non competenza" ma che, invece, parte della base non solo ritiene di competenza ma anche prioritario. Fulvio Grandinetti (ANPI Grugliasco) ha aperto la giornata di lavori ricordando la Costituzione nata dalla Resistenza e con la proiezione di un video muto che illustra lo stato dei lavori al cantiere Tav della Maddalena a fine 2012.

H 10,30
Salgono sul palco i relatori: Ugo Berga, partigiano e commissario politico della 106esima Garibaldi, Mario Solara ANPI Bussoleno, Claudio Giorno (storico del movimento anti-Tav) e Sandro Plano, presidente della Comunità montana valle Susa.
Berga ricorda il grugliaschese don Caustico, fucilato con altri 67 antifascisti il 30 aprile 1945.
"La Resistenza era fatta di due componenti: quella spontanea della popolazione e quella politica, entrambe volte a rovesciare il regime fascista - ha detto Berga - Noi siamo molto fieri della Resistenza italiana ma la nostra resistenza è nata molto tardi rispetto ad altri Paesi in cui si lottava già da due o tre anni. Alcuni dei no Tav dicono siamo i nuovi partigiani e il parallelismo in effetti c'è. La nascita del movimento è popolare anche se non c'è un movimento politico che lo anima. Tutti i partiti, con pochissime eccezioni, si sono schierati a favore del Tav. Sono tutti per la democrazia e per il popolo sovrano ma quando poi il popolo sovrano contesta qualcosa allora il popolo sovrano è già meno sovrano".

Grandinetti chiede a Ugo se è preoccupato per il futuro. "Ci sono ragazzi di 25 o 30 anni precari e senza futuro, con lavori saltuari. Vivono con l'aiuto dei genitori o dei nonni. Ma quando avranno 45 o 50 anni e non avranno niente cosa succederà?" risponde il partigiano.

Prima di proseguire si proietta un filmato della Rai (servizio de L'ultima parola) in cui si dice che l'ordine pubblico per il cantiere Tav costa 90mila euro al giorno.

Claudio Giorno: "Per il 25 aprile sarò a Marzabotto dove là esiste medesima polemica nata qua: si può paragonare la Resistenza al movimento No Tav in Val di Susa? Quando abbiamo cominciato la lotta contro il Tav pensavamo che saremmo rimasti quattro gatti perché si prospettava una lotta titanica contro interessi giganteschi e contro la mafia che dei grandi cantieri si nutre. Per noi era importante testimoniare in valle di Susa per queste ragioni e anche perché in un posto come il Piemonte e la valle di Susa è necessario parlare di mafia e di criminalità organizzata e della matrice di tante opere inutili e imposte. Se qualcuno ancora oggi pensa che la nostra sia la lotta contro un treno o contro il progresso o non ha capito niente o è in malafede".

Ancora un video. L'irruzione violenta delle forze dell'ordine in un bar del Vernetto di Chianocco contro i manifestanti durante le manifestazioni no Tav del febbraio 2012 -YouReporter-
Introduce il tema della repressione violenta del dissenso.

Grandinetti: "Dopo il 2005 non si può dire che non esista un'emergenza democratica in Val Susa. È chiaro che l'ANPI non si occupa di treni ma qui il tema non è il treno ma i diritti dei cittadini e l'ANPI non può prendere posizione. L'ANPI non è No Tav o Si Tav ma è si Costituzione".

Mario Solara: "L'Anpi Bussoleno, ma non solo, sostiene questa posizione anche perché nel 2005 sono stati gli stessi partigiani a partecipare con noi alle manifestazioni popolari, perché abbiamo scelto da che parte stare, perché ricondurre tutto alla volontà di fare un treno è ingiusto e fuorviante. In questo momento di crisi, ripensare alla tipologia di investimenti ci sembra opportuno e poi, soprattutto, ci siamo schierati per la gestione dell'ordine pubblico e per la repressione pesante in ogni occasione in cui c'è una qualsivoglia forma di protesta. Non si può pensare di portare avanti un'opera pubblica in questo modo".

Sandro Plano per le istituzioni: "Stiamo vivendo un momento di totale idiozia politica e sociale. La valle di Susa tante volte è stata udita ma mai ascoltati. Siamo in torto dal punto di vista della democrazia, dunque, essendo minoranza ma io credo che, visto lo sfacelo della attuale politica, dove ci sono inquisiti e condannati e dove si vota che Ruby è la nipote di Mubarak, siamo nel giusto. Quando mancano gli argomenti di ricorre alla polizia e alla magistratura e nel nostro caso è lapalissiano. Io sono iscritto a un partito che ha tentato più volte di espellermi e che fa diversi pesi e diverse misure a seconda degli iscritti. Avere la maggioranza non vuol dire avere la verità in tasca. Qualche senatore continua a fare pericolosissimi accostamenti tra no Tav e terrorismo. C'è una differenza enorme. Terrorismo vuol dire aspettare qualcuno dietro un angolo, sparargli e scappare. I nostri ragazzi protestano a volto più o meno scoperto ma non fanno cose del genere".

H 12
Cambio relatori. Sul palco: Giacomo Gorgellini ANPI Nizza-Lingotto, Gianna De Masi, Mariangela Rosolen, Mauro Marinari (sindaco di Rivalta di Troino).

Gorgellini: "La nostra sezione aderisce con appelli e militanza alla lotta No Tav proprio basandosi sulla Costituzione perché crediamo che questa emergenza democratica sia reale e l'abbiamo vissuta anche sulla nostra pelle".

Marinari: "Noi siamo un'esperienza civica e non dobbiamo seguire la linea di nessun partito. Questo ci permette la libertà di essere vicini ai nostri cittadini, di tutelare il paesaggio e di contrastare eventuali scelte non condivise e calate dall'alto. Portiamo avanti i nostri principi, valori e obiettivi tra cui la lotta al Tav poiché richiama un modello di sviluppo perdente e crescista a tutti i costi che a noi non interessa. La Resistenza ci ha lasciato un'eredità importante che occorre recuperare per lasciarla alle giovani generazioni".

H 12,45
Si parla di acqua pubblica, anche partendo dal rischio delle falde in valle di Susa, poiché anche la battaglia per l'acqua pubblica c'entra con la democrazia.

Giunti: "Quella che viene attuata adesso, contro la cultura, l'istruzione e l'ambiente non è una politica miope. È una politica che ci vuole schiavi e non esseri pensanti e liberi. È dunque una politica lungimirante ma sbagliata". Giunti chiude citando un articolo che la Costituzione non ha ma su cui la Costituente ha lungamente dibattuto: "La resistenza individuale e collettiva, agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino. Giuseppe Dossetti. Proposta di articolo 3".

domenica 7 aprile 2013

Le colpe dei padri

Ho appena chiuso l'ultima fatica letteraria di Alessandro Perissinotto, «Le colpe dei padri», e scrivo su quell'onda emozionale che sempre mi rimane quando finisco un libro, quando l'ultima pagina mette fine a una storia che quasi mai vorrei finisse così come l'autore l'ha immaginata.

Io credo, nella mia vita di lettrice, di aver odiato poche volte, così profondamente, il protagonista di un romanzo. Guido Marchisio, dirigente di una multinazionale e quasi mio coetaneo, incarna tutto ciò che rende questo mondo un posto più brutto in cui vivere. Non basta una sua catarsi lunga trecento e rotte pagine per renderlo più simpatico, non basta alcuna tragedia, alcun dolore che si immagina possa aver provato. E non credo che basti neppure all'autore. L'ingiustizia fa parte della vita e non prenderne atto è forse cosa da bambini. Contraria da sempre al lieto fine forzoso, dovrei godere di questo ritratto contemporaneo, di questo spaccato di realtà e, invece, mi sento orfana di un riscatto.

«E' questa la colpa più grande di ogni padre, quella di costringere i figli a rendergli conto delle loro azioni. In questo, i padri terrestri sono più esigenti di quelli celesti. Quelli celesti li possiamo negare o addirittura possiamo scegliere quello che ci sembra più facile da esaudire: Dio, Geova, Allah, Buddha, Manitù; quale dio mi si addice meglio? Di quale mi sarà più semplice essere figlio obbediente? Dei padri umani, invece, siamo prigionieri: siamo liberi di compiacerli o di deluderli, ma non di plasmare le loro aspettative nei nostri confronti».

Scritto tra l'oggi dentro l'oggi e l'oggi dentro gli anni di piombo, «Le colpe dei padri» ti mette in gioco. Ti costringe a parteggiare, a scegliere tra le mille gradazioni di errore cui solo l'esistenza umana sa dar vita. Noi siamo persone, uomini e donne, e la perfezione non è contemplata.

Di Perissinotto continuo a preferire il buon Colombano da Romean, lo scalpellino. Tuttavia, i romanzi dell'autore torinese hanno sempre il pregio di riuscire a mettermi in discussione con me stessa. Cosa che, personalmente, apprezzo molto.

venerdì 5 aprile 2013

Chi non ha niente da perdere

Chi non ha niente da perdere, a volte, decide di uccidersi. Oggi, marito e moglie si sono impiccati a Civitanova Marche. Lui era esodato (chissà se alla Fornero - ma anche ai 20 anni di indegna politica Pdl e oltre - fischiano le orecchie), lei pensionata. Ma i quattro soldi che la donna portava a casa non bastavano per arrivare a vivere dignitosamente. Non bastavano neanche per vivere. Neanche per pagare l'affitto.

Alle future generazioni stiamo uccidendo il futuro ma alla mia generazione e a quella che appena la precede stiamo cancellando la possibilità di invecchiare in maniera dignitosa, senza dipendere dai figli o, peggio, dall'assistenza sociale o dalla Caritas. Chi ci governa o è completamente cieco e sordo o ha deciso, scientificamente, di sacrificare tre o quattro generazioni di italiani che, in un modo o nell'altro, prima o poi scompariranno lasciando la situazione immutata ma con meno "peso" sociale, i soldi a chi li ha e le briciole agli altri (come da secoli, noi stessi facciamo con il terzo mondo?).

Chi non ha niente da perdere a volte decide di non sacrificare la propria dignità, i decenni di lavoro, i debiti fino a poco prima sempre pagati, i valori ricevuti, gli insegnamenti, i momenti di felicità sull'altare di un'economia che non guarda a chi soffre ed è senza soldi (perché il welfare è un capitolo di bilancio che non può - e non deve! - essere in attivo). Chi non ha niente da perdere, a volte, preferisce scomparire silenziosamente e questo doppio suicidio ne è quasi l'emblema. Quanti anni avrebbero potuto ancora vivere insieme i due? Dieci, cinque, venti? Sono anni rubati da una politica vergognosa, lanciata verso il nulla, che - come dico spesso - era facile prevedere perché negli States, patria del neo-liberismo, è già così da tempo. Non hai soldi? Non ti curi, non invecchi, non hai casa, non hai futuro, non hai voce. Niente.

Chi non ha niente da perdere a volte si uccide.

A volte.

A volte, invece, prende un bastone e uccide. Perché male che vada muore, esattamente come avrebbe fatto se avesse preferito il cappio al bastone. La politica che non prende in considerazione la forza della disperazione è una politica già morta in partenza. Chi non ha nulla da perdere, talvolta, diventa un esempio. Anche per chi qualcosa da perdere ce l'avrebbe, ma che lo mette in conto.




Uno dei link con la fredda cronaca: