sabato 3 agosto 2013

Amianto

Lo so. Ultimamente lo dico spesso che un libro è bello. Forse sono fortunata. Oppure ho imparato a seguire i saggi consigli. Ma "Amianto" di Alberto Prunetti (AgenziaX, 13 euro) è un bel libro, che tratta senza retorica e, con quella profonda umanità a cui attinge l'amore familiare, un tema duro e difficile.

Oggi lo si sa. Di amianto si muore. Ma quando comincia questa storia, che un po' andrebbe scritta con la S maiuscola perché è una storia vera, Renato non lo sa che di amianto si può morire e come tanti va a lavorarci a stretto contatto. Sarà che Prunetti è della provincia di Livorno, nato in quelle terre in cui anche le tragedie e i lutti sono affrontati con quella vena di ironia che aiuta a sopravvivere, ma questo racconto di vita operaia riesce ad essere profondo e allo stesso tempo leggero come l'acqua che scorre in un ruscello di montagna. Acqua che ti racconta la vita e la morte senza mai smettere di scorrere, guizzare, stagnare quel tanto che basta per far riprendere vita e fiato a chi la abita.

Una vita e una morte che ne racconta tante altre. Scrive Prunetti: "Se poi una scintilla raggiunge una cisterna di gasolio e l'impianto si incendia, sembra sciogliersi anche l'asfalto per le strade di Busalla. Ma loro, i busallesi, sono costretti a vivere con il drago, come i tarantini, come i pimobinesi: sono stretti nella morsa della fabbrica sia fisicamente, sia psicologicamente, perché lo stabilimento dà il ricatto del pane e pretende il diritto di inquinare".

È un ricatto che, oggi, abbiamo imparato a conoscere bene. Sarà l'affinità anagrafica con l'autore ma mi ritrovo in molte descrizioni che fa di due generazioni: la sua e quella dei suoi. Genitori che hanno lavorato una vita per far studiare i figli, per risparmiare loro non tanto la fatica ma un lavoro venefico, che prima o poi li avrebbe uccisi.

É anche un libro tenero, una dichiarazione d'amore verso il padre, che mi ha commosso molto. Un breve stralcio: "Ricordi. Quando camminava ancora un poco, lo portai a fare alcuni giri. Le spiagge bianche di Rosignano, per sentire d'inverno le libecciate poco prima del tramonto, quando le ciminiere grigie della Solvay alle spalle torreggiano dal cielo terso sui residui di bicarbonato industriale e simulano un tropico sterile alla livornese. Il poncino dal Civili vicino alla stazione di Livorno. Una birra leggera al bar del benzinaio, sosta obbligata del camionista, con uovo sodo a sostegno dello stomaco. Una caciuccata vicino ai quattro mori, al porto. La nave Venus incagliata a Caletta, a Castiglioncello, vicino al vecchio Cardellino, il locale in cui aveva lavorato tanti anni prima come cameriere e dove aveva ascoltato Nada cantare, quando furono immortalati dal flash di Nick Vampata. Il cimitero di Rosignano Marittimo, dove sono sepolti i miei nonni paterni e Pietro Gori, il cavalier errante dell'anarchia, col suo monumento che 'l'Apuania operaia dedicò', incluso giro turistico tra le tombe dei vecchi stalinisti livornesi che al posto della croce sulle 'urne de' forti' recano incastonata nel marmo polito la falce e il martello".

È difficile condensare una vita in un libro. Soprattutto la vita di qualcuno che è significato tanto per noi ed è contemporaneamente entrato, vittima e morte bianca, nelle tragiche pagine della storia dell'amianto. Prunetti ci riesce, in punta di piedi ma con forza, lasciando al lettore la speranza che il futuro sia diverso anche se le basi di partenza non sono buone, tra difficoltà, mancanza di lavoro e precariato.
Così chiudo come chiude l'autore, che sembra che la speranza non ci sia ma ci sarà sempre fin quando qualcuno avrà voglia di lottare: "Queste sono le ultime cose che vorrei dirgli: babbo, il sacco di polvere di marmo al secondo piano io ce l'ho portato. Ma la ragioneria l'hanno già saccheggiata i padroni e per noi, figlioli degli operai che hanno provato a salire le scale, non c'è rimasto niente. Ci hanno solo preso per il culo, Maremma schifosa".




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