mercoledì 3 ottobre 2012

Sogni in cubi - Racconto #1


Una donna con un pellicciotto sintetico dal colore postatomico si avvicina noncurante. Gli sguardi di fuoco le bruciano le calze ed i tacchi delle scarpe, sottili come le sue caviglie. I suoi passi risuonano nel silenzio, anche se mai prima hanno suonato, ed il leggero ticchettio sembra pioggia che cade sul tettuccio dell’auto. Il sole sta sorgendo e dipinge il quadro con tutte le tonalità di rosso, giallo ed arancio che un uomo possa immaginare e con qualcuna che non avrebbe mai immaginato. E stupisce ancora, nonostante siano millenni che replica lo stesso spettacolo.

Tutto, intorno a quel buffo pellicciotto, prende i colori del giorno mentre gli animali notturni prendono la via di casa, promettendo di restituirla la sera stessa, e ritornano con la coda tra le gambe al piccolo nido che qualcuno pulisce e sistema per loro. Li puoi distinguere dalle creature diurne dall’espressione spenta di chi vive la più intensa e faticosa esperienza umana, sebbene a volte si possa trovare un’espressione simile altrove, volendola cercare. L’assenza di luce scompare totalmente ed il traffico divora la città. Fiumi di persone si riversano ovunque ed il ticchettio dei passi scompare coperto da miliardi di suoni diversi. Lontane, le sirene delle navi. Più vicini, il rombo dei motori delle auto, un vociare confuso, urla di bambini, qualche motocicletta e serrande che si aprono, il boato potente della metropolitana, i clacson, lo sbuffare delle porte dell’autobus, le campane di una chiesa allo scadere dell’ora e milioni di passi affrettati.

La donna con lo strano pellicciotto entra in un caffè. Il profumo dei croissant caldi le assale le narici, ma lei si siede ed ordina solo una tazza di tè. Lo beve amaro e fuma nervosamente come se aspettasse qualcuno e temesse un ritardo. Nel bar fa caldo, ciò nonostante la donna tiene il pellicciotto ben chiuso. Le si arrossano le guance mentre la sua attesa si prolunga evidentemente. Accende un’altra sigaretta proprio quando arriva il mio autobus e mi porta via.

A tre fermate da dove mi trovavo capisco che devo scendere. Un po’ mi spiace di essere partita prima di sapere chi aspettava quella donna, ma la curiosità si spegne non appena scendo dal bus ed affondo i piedi nudi nella sabbia calda e morbida di una grande spiaggia dorata. La casa è poco lontana. Ha i muri bianchi e le finestre marrone scuro. La sabbia comincia a scottare ma è solo un attimo. Mi guardo i piedi e vedo un paio di zoccoli olandesi e non riesco a ricordare se anche prima le avessi. In fondo ha poca importanza perché sono arrivata alla casa e sto aprendo la porta.

Prima di entrare guardo il mare e vedo due uomini seduti in una barca. Uno di loro mi saluta e mi fa cenno di avvicinarmi. Sono indecisa se entrare o raggiungere l’uomo. Sento il rumore delle onde ed il fresco provenire dall’interno della casa. Vedo il sole che si specchia nel mare e la penombra delle stanze protette dalle tende pesanti. Approfitto comunque del costume che indosso e mi tuffo assaggiando la salsedine rimasta sulle mie labbra appena riaffioro.

Sola, in mare aperto. La costa non si vede più. Ho paura degli squali o forse di annegare perché prima o poi mi stancherò di nuotare. Non ci sono gabbiani. Non si sente nessun rumore se non lo sciabordio leggero delle onde. Il mare è calmo e il sole rovente. Acqua. Acqua dappertutto. Nuotare in una direzione o nell’altra è lo stesso. Non riesco ad orientarmi e mi assale un profondo senso di panico dovuto alla mia impotenza. Infine mi decido e comincio a nuotare. Non sono mai stata molto brava e mi stanco subito. A tratti nuoto e poi mi fermo a galleggiare per riprendere fiato. Al panico si sostituiscono stanchezza e frustrazione. Presto la disperazione. Lacrime salate scendono sulla mia faccia salata e le gambe cominciano a dolermi.

Penso d’essere perduta e quasi mi viene voglia di lasciarmi andare, così che il mio destino si prenda cura di me. Non ho più paura. Il vuoto si è impadronito del mio cervello annullandolo. Dove sono? Perché io? Aiuto. E finalmente lontana un’imbarcazione. Urlo e l’acqua del mare mi entra in bocca. Urlo più forte e non mi spiego come io sia riuscita ad emettere un suono così potente. Qualcuno laggiù mi vede e mi raggiunge. Mi tirano a bordo e dal sollievo mi addormento (o svengo?).

Quando mi sveglio attorno a me un gruppo di persone mi guarda e sorride. Il letto su cui sono distesa non è il mio, ma non ha molta importanza perché mi accorgo di non riuscire a muovermi. Sono come paralizzata. Sta per riassalirmi il panico ma mi accorgo che è solo un’impressione. Muovo le gambe, poi le braccia e sorrido come un’idiota. Sono felice perché sono viva, mi muovo e sto bene. All’improvviso vedo qualcosa che mi sembra di riconoscere. Fissandolo ho reminiscenze di pensieri lontani.

E’ proprio bello quel pellicciotto. E’ bello perché è sintetico e quel colore postatomico si intona perfettamente agli occhi della donna che lo indossa.

2 commenti:

  1. Ho dovuto pensare a Blade Runner, sarà il pellicciotto...

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    1. ... ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare.

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