Ferrara. Undici anni. Con l'arroganza e il razzismo che hanno imparato, sicuramente, in famiglia, alcuni bambini spintonano e insultano un loro coetaneo di origini ebree e gli dicono "Quando saremo grandi faremo riaprire Auschwitz e vi ficcheremo tutti nei forni".
Il primo che dice che i ragazzini potevano anche non sapere cosa significavano i campi di concentramento si faccia un importante esame di coscienza.
Se i professori di mio figlio mi convocassero dicendo che è stato responsabile di questa aggressione agghiacciante, probabilmente lo porterei sul luogo di questa immane tragedia e gli farei visitare quello che resta dei campi in pigiama e zoccoli. A gennaio.
Visto che, sicuramente, la colpa sarebbe mia lo farei anche io il giro, in pigiama e zoccoli.
Alcuni anni fa ho sentito un bambino di sei anni insultare una donna in un modo che non poteva appartenergli. Quegli insulti li aveva certo sentiti in casa e poi ripetuti fuori. Probabilmente (in questo caso sì) se gli avessi chiesto cosa significavano non avrebbe neanche saputo dirmelo.
I primi insegnanti dei nostri figli siamo noi. Con il nostro esempio e con le nostre parole. Se, in casa, loro ascoltano frasi come "se io potrei venire", loro a scuola e fuori casa dicono "se io potrei venire". Se, in casa, ascoltano quotidianamente il papà che insulta la mamma, saranno più portati ad offendere le donne. Se, in casa, si cova razzismo, loro saranno più propensi a esserlo. Se non si ha rispetto per le cose proprie e altrui, saranno più propensi al vandalismo.
La reazione può essere anche contraria ma è difficile, soprattutto da ragazzini. Magari, il confronto con il mondo esterno sarà fondamentale e loro potranno capire che quell'atteggiamento era sbagliato. Ma ci vorrà tempo, professori e amicizie giuste e un po' di fortuna.
Non dovremmo mai sottovalutare che la pera, in linea di massima, non cade mai lontano dall'albero.
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