domenica 7 aprile 2013

Le colpe dei padri

Ho appena chiuso l'ultima fatica letteraria di Alessandro Perissinotto, «Le colpe dei padri», e scrivo su quell'onda emozionale che sempre mi rimane quando finisco un libro, quando l'ultima pagina mette fine a una storia che quasi mai vorrei finisse così come l'autore l'ha immaginata.

Io credo, nella mia vita di lettrice, di aver odiato poche volte, così profondamente, il protagonista di un romanzo. Guido Marchisio, dirigente di una multinazionale e quasi mio coetaneo, incarna tutto ciò che rende questo mondo un posto più brutto in cui vivere. Non basta una sua catarsi lunga trecento e rotte pagine per renderlo più simpatico, non basta alcuna tragedia, alcun dolore che si immagina possa aver provato. E non credo che basti neppure all'autore. L'ingiustizia fa parte della vita e non prenderne atto è forse cosa da bambini. Contraria da sempre al lieto fine forzoso, dovrei godere di questo ritratto contemporaneo, di questo spaccato di realtà e, invece, mi sento orfana di un riscatto.

«E' questa la colpa più grande di ogni padre, quella di costringere i figli a rendergli conto delle loro azioni. In questo, i padri terrestri sono più esigenti di quelli celesti. Quelli celesti li possiamo negare o addirittura possiamo scegliere quello che ci sembra più facile da esaudire: Dio, Geova, Allah, Buddha, Manitù; quale dio mi si addice meglio? Di quale mi sarà più semplice essere figlio obbediente? Dei padri umani, invece, siamo prigionieri: siamo liberi di compiacerli o di deluderli, ma non di plasmare le loro aspettative nei nostri confronti».

Scritto tra l'oggi dentro l'oggi e l'oggi dentro gli anni di piombo, «Le colpe dei padri» ti mette in gioco. Ti costringe a parteggiare, a scegliere tra le mille gradazioni di errore cui solo l'esistenza umana sa dar vita. Noi siamo persone, uomini e donne, e la perfezione non è contemplata.

Di Perissinotto continuo a preferire il buon Colombano da Romean, lo scalpellino. Tuttavia, i romanzi dell'autore torinese hanno sempre il pregio di riuscire a mettermi in discussione con me stessa. Cosa che, personalmente, apprezzo molto.

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